"La Bocata", quando fare il bucato era una cosa seria

05/mar/2019
Eleonora Guerra

I panni sporchi vanno lavati in casa… diceva il saggio, eppure a dispetto di questo antico adagio, ricco di sottintesi, non è stato sempre così.

Perché, mentre oggi, per fare il bucato abbiamo a disposizione delle lavatrici che fanno innegabilmente tutto il lavoro al posto nostro, che sono a portata di mano fra le quattro mura domestiche, e che sono un concentrato di tecnologia – addirittura quelle di ultima generazione, promettono di svolgere il loro lavoro nel più totale silenzio!!!! – tanto che a noi non resta che cacciare i panni nell’oblò, scegliere il programma, ruotare una manopola o schiacciare un pulsante, in totale solitudine… una volta non era esattamente così, anzi!!!

Lavatoio pubblico di San Lorenzo in Campo

Vecchi lavatoi pubblici in zona San Lorenzo in Campo

Lavatoi pubblici in pietra

Antico lavatoio pubblico in pietra
Al tempo dei miei nonni, lavare i panni era una faccenda impegnativa, rumorosa e “affollata”.

Coinvolgeva tutta la famiglia, a volte anche i vicini di casa, era una gran “fatigaccia” che andava a sommarsi ai non facili lavori quotidiani, durava almeno un giorno e in una certa fase, veniva svolta all’esterno!!! Nei lavatoi pubblici o lungo il corso dei fiumi.

 

Lavatoio di San Lorenzo in Campo

Storico lavatoio di San Lorenzo in Campo

Le vasche del lavatoio

Le vasche del lavatoio

Lo scarico della vascha del lavatoio

Lo scarico di una vasca del lavatoio

La Bocata, cioè il bucato, si faceva ogni quindici/venti giorni, qualcuno anche una volta al mese e nelle famiglie più povere, a causa della penuria di vestiti e biancheria, era necessario farla molto più frequentemente. Di solito era una facenda famigliare e si lavavano i propri panni, ma c’erano anche le lavandaie che lo facevano di mestiere, magari perché rimaste vedove e quello era l’unico modo di racimolare qualche soldo e si occupavano dei panni dei “ricchi”, possidenti, o borghesi.

Per lavare i panni si usava la ranna (ranno) cioè una soluzione ottenuta versando dell’acqua bollente sopra uno strano di cenere bianca

Per lavare i panni si usava la ranna (ranno) cioè una soluzione ottenuta versando dell’acqua bollente sopra uno strano di cenere bianca, proveniente da legni poveri, come ginestre, rovi, acacie, sopra un telo ampio a trama fitta, o un vecchio lenzuolo rattoppato, chiamato cendrale. Ma prima, si doveva togliere lo sporco dai polsini e dai colli delle camicie, - e a quell’epoca era davvero un signor sporco!! - e le macchie più ostinate, strofinando i panni con il sapone fatto in casa (si facevano bollire, insieme soda caustica, pece greca, scarti di grasso e ossa animali e si profumava con lavanda, foglie di menta o basilico).

Solitamente questa fase si svolgeva sulla sponda del fiume, dove le donne si mettevano in ginocchio, sfregando su di una pietra levigata, o nei lavatoi.

 

Il bucato nell'acqua del fiume

Anni '70, due signore fanno il bucato al fiume

Mia nonna, che abitava a San Vito sul Cesano, quando andava al fiume a lavare, stava anche ben attenta a che non arrivasse una piena improvvisa o che non comparissero delle bollicine galleggianti sull’acqua, segno evidente che di lì a poco sarebbe arrivata la “colta”, ovvero l’acqua liberata dalle paratie della balza posta a monte, che serviva a far funzionare il mulino. Insomma non si poteva mai stare tranquilli e visto che, ovviamente, il bucato si faceva in tutte le stagioni, posso solo immaginare quanto potesse essere fredda l’acqua del fiume – e del lavatoio - d’inverno, quando l’acqua “mordeva”.

Appena concluso questo primo step, diremmo oggi, i panni venivano riposti nelle ceste e riportati verso casa: le canestre venivano trasportate in equilibrio sulla testa, appoggiate sulla croia, un fazzoletto o un telo di stoffa pesante, arrotolato a mo’ di cerchio, che serviva da spessore e stabilizzava il peso.

Una volta a casa si prendeva una grande mastella, fatta di doghe di legno e munita di un foro di scarico nella parte bassa, chiuso da un piro di legno e vi si sistemava la biancheria a strati ben distesa, in modo che non vi ristagnasse la ranna con cui si sarebbe poi riempita. La mastella era rialzata dal suolo da un cavalletto a quattro gambe, per agevolare l’operazione di svuotamento della stessa e poter recuperarne più facilmente l’acqua, dopo averla sturata dallo zipolo.

I panni venivano ricoperti dal cendrale, su cui sarebbe stata posta la cenere precedentemente setacciata: ne occorreva sui 200-250 g per litro di acqua e normalmente le donne facevano “a occhio”. Intanto si metteva a scaldare l’acqua, presa dal pozzo o dalla fontana pubblica, nella caldara, un grande recipiente di lamiera zincata che aveva la forma di tronco di cono rovesciato: poggiava su di un treppiede, era munita di una cannellina nella parte inferiore, al centro aveva un tubo con una griglia sotto e dentro vi si mettevano i pezzi di legno che, bruciando, scaldavano l’acqua. Chi non possedeva questo attrezzo specifico, poteva servirsi di un comunissimo caldaio di rame e scaldare via via l’acqua sul camino.

L’acqua bollente versata sulla cenere ne scioglieva i componenti... li rendeva bianchi donando loro un profumo particolare e inimitabile.

L’acqua bollente versata sulla cenere ne scioglieva i componenti, formando una soluzione di bicarbonato di potassio che, penetrando nei panni e unito al sapone, li rendeva bianchi e donava loro un profumo particolare e inimitabile. Versata tutta l’acqua, si ripiegavano gli angoli del cendrale su se stessi in modo che la biancheria rimanesse più a lungo possibile al caldo, e vi si lasciava riposare per tutta la notte.

Il giorno dopo, quando ormai l’acqua si era raffreddata, si toglieva il cendrale con la cenere, si sturava la mastella e si recuperava la ranna che sarebbe servita per lavare i panni di colore, i capelli, le stoviglie e i pavimenti.

Rimaneva ancora una cosa da fare…e cioè andare a sciacquare i panni sotto l’acqua corrente dei lavatoi o del fiume.

Rimaneva ancora una cosa da fare…e cioè andare a sciacquare i panni sotto l’acqua corrente dei lavatoi o del fiume.
Questa volta si utilizzavano carriole o birocci, perché i panni intrisi d’acqua pesavano molto di più e il lavoro in questa fase necessitava di tante braccia e di tante donne, e i lavatoi diventavano luoghi chiassosi, dove il rumore dell’acqua scrosciante, dei panni zuppi sbattuti sulla pietra, con dei sonori schiocchi, si mescolava al chiacchiericcio, alle risate, alle canzoni a volte, ai pettegolezzi delle nostre nonne che, nonostante la vita difficile, trovavano sempre di che ridere e sorridere.

Ho avuto la fortuna di nascere e crescere a Pergola in un quartiere in cui c’era un lavatoio (“lavatore” come lo chiamavamo noi) purtroppo ora in completo stato di abbandono, dove fino agli anni ’80/’90 le donne di Pergola del quartiere Tinte-Birarelle, ma anche dal vicino San Marco e San Francesco, venivano a lavare o molto più spesso sciacquare i panni, e ho avuto un assaggio di quello che poteva essere la vita di un tempo.

Antichi lavatoi a Pergola

Antichi lavatoi a Pergola

In una bella giornata di sole, ho fatto un bel giro e sono andata a vedere i lavatoi di San Lorenzo in Campo, Montalfoglio e San Vito sul Cesano, (e chissà quanti altri lavatoi ci sono nella nostra splendida Valle del Cesano, incastonati negli anfratti dei borghi e delle cittadine) e aggirandomi in questi luoghi ormai silenziosi, dove solo il canto degli uccellini mi faceva compagnia, toccando con mano le pietre delle vasche vuote, ho sorriso pensando che un tempo lì c’erano voci, urla, rumori, confusione sicuramente, donne affaccendate, bambini che giocavano nelle pozze d’acqua, attaccati alle sottane delle madri… c’era la vita, dilagante e travolgente.

Questi sono i luoghi della Nostra storia che, pazientemente restano lì, magari sotto gli occhi di tutti, e attendono che qualcuno si ricordi di loro e li vada a riscoprire.

 

Il lavatoio di Montalfoglio

Il lavatoio di Montalfoglio di San Lorenzo in Campo

Al lavatoio di Montalfoglio

Le vasche del lavatoio dove un tempo si lavavano i panni

 

Lavatoio di San Vito sul Cesano

Il lavatoio di San Vito sul Cesano

Come sempre ringrazio la signora Luisa Barbadoro, fonte inesauribile di notizie e d’ispirazione.